IL RUOLO DEL PROF... SECONDO ME!

Scritto da Redazione.

profdi Gigi Cotichella
Insegnare... accompagnando alla vita!

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A me è successo

 
Sono stato un insegnante… O meglio, un professore, visto che ho vissuto questo mestiere in un liceo.

Si trattò di un’occasione: per quattro anni ho vissuto questa bellissima esperienza, che un po’ sognavo, un po’ mitizzavo. Un po’ la sognavo fin da piccolo e fa parte di me. Credo che anche oggi fare il formatore come parte fondamentale della mia vita sia proprio, in qualche modo, il non voler rinunciare a insegnare.

So benissimo che l’insegnamento e la formazione sono diversi. Ma hanno molti punti di contatto. Ho scoperto in quegli anni i lati oscuri, i limiti, le difficoltà, le problematiche. Ma ho potuto toccare con mano anche le risorse, le possibilità, la bellezza.

Mi sono sempre interrogato, a volte anche con sguardo molto dubbioso, sulla contrapposizione che spesso pensiamo tra educazione, istruzione, formazione; tra aiutare i ragazzi a sbocciare, a crescere, e, nello stesso tempo, il mondo della didattica. A questo ho aggiunto l’esperienza vissuta in Africa per un certo periodo, dove ho visto una scuola che veramente salva la vita, ed è qualcosa di meraviglioso rispetto alla vita normale. Ho scritto molti appunti quest’estate, complice la vicenda del professore del liceo di Saluzzo, sotto i riflettori per un po’. Ho dovuto così rivedere tutto questo percorso e ricomprendere quale sia davvero, per me, il ruolo dell’insegnante.

 Se le parole hanno un senso, sia “insegnante”, sia “maestro”, sia “ professore” indicano dimensioni che, al di là della didattica, hanno un coinvolgimento più grande.

La professione è un mestiere, ma professare significa anche dire ciò in cui si crede fermamente: esiste la professione di fede…

Insegnare è qualcosa che lascia il segno dentro.

Maestro ha sempre la doppia valenza di accompagnatore alla vita.

Sicuramente c’è questa doppia dimensione, di didattica e di apertura alla vita, che non devono più essere viste in contrapposizione.

Il lavoro nel campo artistico e della comunicazione mi ha insegnato che si sale su un palco solo se si ha qualcosa da dire. Per questo presuppongo che il contenitore di una scuola debba essere la didattica: “ho qualche cosa da dirti”. Subito dopo, però, so benissimo che, quando sei sul palco, il pubblico continua ad ascoltarti non se utilizzi buone tecniche comunicative, che sono solo uno strumento, ma se hai una forte empatia.

E piano piano ho scoperto che a completamento della capacità di fare i formatori e gli insegnanti serve la passione per la materia, per i ragazzi, per la comunicazione in sé.

Con queste tre passioni vive l’insegnante, e le bilancia continuamente. Ecco che allora non mi spaventa l’idea di seguire un programma, perché è importante ma nello stesso tempo è bilanciato dal fatto di dover sostenere i ragazzi. E non mi spaventa neanche il dover inventare nuove modalità, provarle tutte, perché ho la passione di cercare questo.

 Non la voglio fare troppo facile, non dico che non sia impegnativo. Però il ruolo del docente fa vivere questo. Tutte le moderne scienze antropologiche hanno dimostrato che non può esistere una didattica senza una relazione, perché c’è sempre un incontro. All’interno di un incontro asimmetrico c’è automaticamente una relazione che è molto simile a quella educativa. Certo che è molto importante lavorare sul perché esiste questa relazione: se sono dentro il mondo scuola, il mio essere educativo sarà dentro a questo contesto. Ma ciò non vuol dire perdere di vista la dimensione del ragazzo. Posso dare un 4: non do il voto al ragazzo, ma all’esposizione dell’argomento. Do 4 all’interrogazione, ma dopo 5 minuti posso uscire e vedere un bravo ragazzo in gamba, che sa fare bene molte cose. Certo, così come vive male il ragazzo il fatto di prendere un brutto voto, sia che faccia finta che non gli interessi, sia che amplifichi troppo la parte emotiva, anche noi insegnanti abbiamo una specie di delusione emotiva, relazionale per il fatto che qualcuno abbia preso 4. E’ difficile non assecondare questa forza emotiva. Ed è in quel caso che il ruolo del professore ci dice che gli adulti siamo noi e dobbiamo riuscire a fare il passo in più, altrimenti la relazione non è più asimmetrica, ma simmetrica.

 

 

Una questione di pepe

 

Ecco allora che se dovessi raccontare con una formula, con una immagine, chi è l’insegnante e come dovrebbe essere, direi che è una persona che ha un po’ di pepe perché uno che scuote; e non perché i ragazzi gli danno tanto, ma scuote a priori, perché ci crede.

Ha pepe perché è P.E.P.E., è Preparato, Empatico, Pronto, Educatore.

 

Preparato perché non c’è niente di più bello che sentire una persona appassionata della sua materia ma anche alle persone a cui si rivolge. La forza non sta nell’aver capito Dante alla perfezione, ma nel saperlo ridire ai ragazzi di oggi mostrando loro che Dante ha qualcosa da raccontare. E così via per qualunque materia.

Quando frequentavo la prima superiore, un giorno un supplente ci fece fare un gioco … Era pressoché impossibile risolverlo, se non in alcune parti. Ricordo ancora quel gioco con cui ci spiegò come affrontare le problematiche e ancora oggi uso quello stesso gioco nei corsi di formazione. Qualunque cosa può diventare appassionante se ci si crede e si ha la voglia di guardare in faccia dove si è. Perché la passione per la materia è il punto di arrivo, ma la passione per i ragazzi ci fa capire il punto di partenza, e quindi che strada fare.

Essere empatici è questa seconda passione.

 

Pronti, perché flessibili, perché non c’è più un’autorità riconosciuta dal mondo; i ragazzi sono sfiduciati dagli adulti, non credono più in tante possibilità. Ecco allora flessibilità, capire che oggi lavoriamo con dei ragazzi che sono così, che hanno tanti altri vantaggi e aspetti positivi, ne hanno alcuni negativi rispetto ad un’idea di insegnante che non esiste più, ma che continuiamo a mantenere in vita, spesso sbagliando. “Pronti”, allora, vuol dire pronti a cambiare, ad essere flessibili, a non irrigidirsi quando ci arrivano proposte diverse, a non pensare subito male dei colleghi, a vedere che a volte proprio quello che io non voglio fare è la strada giusta per migliorare un po’ l’attenzione.

Mi capita spesso, nei corsi, di dover fare dei lunghissimi percorsi con gli insegnanti per aiutarli a capire che, quando gli si dice come evolversi e cambiare, non significa che stiano sbagliando tutto, ma che tutti, come in qualunque altra professione, possono migliorarsi.

 

E infine educatori: non aver paura di lavorare sulla materia umana, di fare rete, di creare quell’alleanza fra adulti che è così necessaria; non solo nel primo circuito della scuola, quel triangolo ipotizzato da D’Avenia: insegnanti – allievi – famiglia, ma anche insegnanti – allievi – famiglia e territorio.

Conosco benissimo la fatica e la difficoltà di aprire nuove strade e ripensarsi su questo. Ma potrei anche raccontare molte storie di successi scolastici e umani in cui i ragazzi sono riusciti a sbocciare o perché il territorio – l’educatore, l’allenatore, la figura di riferimento – ha cominciato a lavorare con la scuola, o perché la scuola ha cominciato a lavorare con il territorio.

Alla fine il ragazzo vede nel maestro, insegnante, professore, uno dei primi adulti esterni alla famiglia. Quindi l’insegnante è in automatico un punto di riferimento. Può esserlo in maniera mitizzata o in maniera turbolenta, ma in ogni caso rimane punto di riferimento.

 

Ecco perché i docenti non dovrebbero più aver paura di avere un ruolo educativo. Che non vuol dire diventare educatori professionali, non fare più il programma, pensare solo alla vita extrascolastica, ma vuol dire sapere che si è educativi all’interno di un ruolo che è quello dell’insegnante, e tutte le volte che si arriva a non avere delle competenze, si possono chiamare altre persone, e con queste collaborare. In modo da riuscire ad avere bambini, ragazzi, giovani in gamba già oggi, e degli ottimi adulti domani.

 

 

 

Gigi Cotichella

EEDUCARE2.2b-29

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