COME NASCE UNO SPETTACOLO?
di Gigi Cotichella
Come nasce uno spettacolo? Da dove vengono le idee che mettiamo in scena? Come ci vengono in mente quelle situazioni, quelle scene, quelle musiche che fanno muovere delle emozioni?
Sono domande che spesso ci vengono poste. Contrariamente a quanto si pensa, non è tutto frutto di un’ispirazione. Certo, capita spesso che le idee arrivino quando meno te lo aspetti, ma quando arrivano hanno bisogno di trovare un bel terreno in cui attecchire e crescere.
Per citare il Claudio Baglioni, potremo dire che “Non sappiamo se l’ispirazione esiste, ma se esiste è meglio che ci trovi al lavoro!”. L’idea di fondo è proprio questa: trovare delle condizioni tali per cui le idee possano crescere e sbocciare.
Ecco perché certi spettacoli, certe canzoni, certi film, restano nel cassetto per anni! Perché l’intuizione è buona, ma c’è bisogno del tempo giusto perché maturi. Arriva un momento in cui, però, s’inizia a scrivere, s’incomincia a metter giù. Questo momento possiamo vederlo attraverso alcuni passi…
Ø Il primo passo per partire è capirsi bene su cosa si vuol dire. Altrimenti, non si può salire su un palco. Il problema non è tanto se far ridere, far piangere, far riflettere, piuttosto che dare un po’ di spensieratezza. Il discorso è che bisogna sempre avere qualcosa da dire. Poi questo qualcosa può essere di molto profondo o di molto leggero, ma è sempre necessario avere qualcosa da dire perché è il soggetto che muove la sceneggiatura e non viceversa.
Ø Il passo successivo consiste nell’analizzare bene il tema. Nel nostro ultimo spettacolo, che va in scena sabato 29 marzo, il tema è nato dalla complicità di due temi, forse apparentemente lontani o almeno così ci sembrava all’inizio. Da una parte sentivamo l’esigenza di scrivere qualcosa sulla cittadinanza attiva, dall’altra sulla felicità.
Indecisi sul da farsi, siamo partiti dall’analisi del soggetto.
Andando ad analizzare abbiamo scoperto che alcuni aspetti della cittadinanza attiva fanno parte del nostro modo di lavorare. Così volevamo mettere in scena questo tema, proprio per poter raccontare qualcosa in cui crediamo. A convincerci della bontà dell’idea è stata la rappresentazione della nuova edizione di Punti, Spunti, Trapunte e Appunti. Alla fine dello spettacolo Alberto Angeli avvicinandomi mi disse: “È molto bello, mi piace questa idea del sogno, però servirebbe adesso uno spettacolo che dica, non tanto come trovare il proprio sogno ma… quando l’hai trovato, come lo mantieni in vita?”. Ecco che è arrivata l’idea della felicità, che è diventata come mantenere in vita il proprio sogno e, quindi, il tema dell’autorealizzazione. In questo modo il rispondere alla propria vocazione diventa una cosa più abbordabile da raccontare: dire come mantenere in vita un sogno è più semplice che narrare la felicità. Resta un compito arduo, ma sicuramente più semplice.
Ø A questo punto si arriva alla fase che sta nell’approfondimento del soggetto. A questa prima fase del perché dire una cosa se ne aggiunge una sul come dirla. Per farlo siamo partiti da un gioco che apre alla varietà delle arti. È un po’ come giocare a Se fosse... E quindi si immagina, si parte da domanda, ad esempio, “Questo tema se fosse un film… se fosse una canzone…, un video…, un’immagine…, una foto…, che cosa sarebbe?” L’idea di ragionare per immagini e per mappe concettuali sviluppa altre modalità di connessione prima inimmaginabili, ed ecco che nascono nuove idee da cui partire. Tra l’altro usare altri linguaggi, tendenzialmente artistici, porta già ad avere materiale di scena, e s’immaginano, così, mondi diversi.
Ø A questo punto avviene il processo creativo. Spesso e volentieri si prendono strade che portano in vicoli ciechi, così si torna indietro e si rifà. Nel nostro caso la cittadinanza attiva, com’era stata pensata all’inizio, doveva rappresentare la vita di un quartiere che veniva trasformata da un evento. Ben presto siamo andati a finire in un vero e proprio musical.
Ø In questo processo s’incomincia a capire in quale genere entrare. Anche la scelta del genere teatrale implica alcune dinamiche piuttosto che altre. Nel nostro caso all’inizio sembrava quasi che andassimo verso un semi-musical molto semplice, molto più scarno delle attuali produzioni molto “colossali”, ma ben presto ci siamo accorti della difficoltà e della complessità, ma anche della non scioltezza. Così il tema ci ha portati a tornare sul nostro modo di fare spettacoli, molto più sul genere varietà. Ed ecco che più l’idea di scomporre il tema si realizzava, più si componeva la cittadinanza attiva diventando più semplice. Perché, quindi, scegliere la cittadinanza attiva da scomporre piuttosto che la felicità? La risposta è in una regola: per sviluppare un’idea partire dal semplice. Ora la felicità è un discorso molto più ambiguo e articolato, molto opinabile, molto personale. La cittadinanza attiva ha dei punti più oggettivi su cui si può lavorare. Inoltre è più facile trovare delle categorie. Così abbiamo iniziato a dire che la cittadinanza attiva è un discorso sull’informazione, sulla legalità e pian piano abbiamo aggiunto delle parti. Ma la domanda è “Che cosa centra questo con la mia felicità?”. È così che si crea il processo creativo, si cominciano a scrivere dei pezzi che spesso vengono buttati via, mentre altre volte vengono ripresi.
Ø Tutto questo introduce alla fase successiva di stesura del copione. A questo punto si corre il rischio spesso dell’empasse, cioè di rimanere bloccati in uno dei tanti vicoli ciechi creativi. In questa fase bisogna avere coraggio, il coraggio anche di abbandonare tutto e di ricominciare da capo, perché, a volte, è l’unica maniera per salvare molto del lavoro che si è già fatto. Sembra una contraddizione in termini ma nel processo creativo, a volte, ci sono piccoli pezzi semplicemente incastonati nel posto sbagliato.
Ø Si arriva, così, alla fase di costruzione della struttura, che permette di tenere insieme i tanti gioielli creativi. Uno di questi gioielli creativi consiste nell’idea, venuta a Simone Lotrionte, di avere una banda in scena, di avere la musica dal vivo. La banda rappresenta la comunità nella quale, aggiustando gli spartiti, possiamo suonare tutti insieme anche se siamo diversi. A guidare la banda c’è un direttore. Il capo, certo, dà il ritmo, ma non si può sostituire alla banda e non può fare tutto quello che fa la banda. Ma guai se non ci fosse! La guida deve prendere le decisioni importanti, deve dare un aiuto alla banda.
Ø Come la banda legge uno spartito che alla fin fine è un foglio di carta scritto in un’altra lingua, quella della musica, così il discorso della cittadinanza attiva si basa su una serie di testi scritti. Pensate tutto il discorso che riguarda la legalità, la costituzione di uno stato, si tratta sempre di testi scritti. L’informazione è ancora oggi molto scritta. È scritto anche tutto l’aspetto della cultura che pur nutrendosi di evento parte e ritorna a libri e pubblicazioni, anche se poi la cultura. Ecco che l’idea della pagina, del discorso, cominciava a prendere forma. Da qui è partita l’importanza della pagina scritta, perché se qualcuno legge pagine scritte vuol dire che qualcuno le ha scritte e le ha scritte sempre partendo da un foglio di carta bianca. La nostra vita non è, forse, un insieme di fogli di carta su cui scrivere la nostra storia? La nostra realizzazione sta nella capacità non tanto di voltare pagina, che dà l’idea di voler dimenticare, nel bene o nel male, i fatti accaduti, ma di girare pagina nella speranza che quella successiva spieghi quelle passate, anche nei passaggi più brutti, più sbagliati. È la speranza alimentata da un impegno, che è il mio impegno personale, perché sono io a scrivere le pagine. Ecco che allora una frase come “Non conta quante volte siamo caduti, ma quante volte ci siamo rialzati!” assume tutto un altro discorso.
Ø Tutti i quadri si compongono. I personaggi del musical che avevamo tirato fuori nella prima fase vanno a rifinire un nuovo spettacolo di varietà dove c’è una storia, ma una storia talmente particolare e fantastica, che alla fin fine si adatta alla vita di tutti. Pian piano tutto prende forma, si cominciano a scegliere le musiche, le varie scene, i vari linguaggi artistici. Poi le parole prendono un senso e si va sulla minuteria, cioè si sente il peso della parola e allora “sentire” non ha lo stesso significato di “ascoltare” e viceversa.
Dire in una frase “Prego” piuttosto che “Non ho capito”, può aprire una battuta, che crea un nuovo gioco di sensi in un continuo evolversi dello spettacolo. In questo il processo creativo va più veloce perché ormai c’è una struttura quindi si possono incastrare le cose e si cesella se la struttura regge, se sembra che regga si va avanti.
Ø L’ultima prova per uno spettacolo è nel campo della rappresentazione, visto che poi è proprio nel metterlo in scena che si vedranno tutti i limiti o le risorse. Bisogna, quindi, mettersi nei panni del pubblico. Da quello molto positivo, che non vuole troppi arzigogoli, a quello molto pessimista, che non cerca l’immediatezza di una risposta troppo facile; a quello troppo critico, per cui la semplicità delle emozioni sembrerebbe un eccesso di banalizzazione; alla persona semplice, che di nuovo vorrebbe evitare troppi giri di parole. Bisogna, quindi, trovare la strada giusta fra il cosiddetto processo didascalico e quello evocativo. Il didascalico è molto chiaro, ma rischia di essere noioso esattamente come una persona che vuole descriverti l’emozione che vuole trasmetterti; quello evocativo, invece, corre il rischio di essere troppo nascosto, della serie “M’interessa sorprenderti, poi se non capisci niente va bene lo stesso“.
Ø A questo punto, dopo l’ultimo collaudo, non resta che portare lo spettacolo in giro e metterci tutto quello che si è voluto dire. Ed ecco che si riparte dal perché del soggetto e questo dà quel tocco di forza e di verità che giustifica la finzione teatrale. Come diceva Proietti è “Sì finzione, ma mai falsità”.
Il resto dello spettacolo ovviamente non ve lo raccontiamo, si tratta di venirlo a vedere, se vorrete, il 29 marzo al Teatro Piccolo di Valdocco, se non nelle prossime date più vicine a casa vostra. In ogni caso la data del 29 marzo non va persa, perché sarà l’unica occasione in cui i ventun allievi del corso artisti della S.T.A.R., Scuola di Teatro, Arte e Relazione, andranno in scena con i loro docenti.
Un’occasione unica in cui il teatro non solo stimola una riflessione sui sogni, sulla cittadinanza attiva, sulla capacità di realizzarsi, temi molto forti e molto adatti ad un pubblico giovanile, ma addirittura diventa testimonianza autentica di quello che ti vuole dire. Ai giovani non diciamo soltanto delle possibilità che hanno e di quello che potrebbero fare. Ai giovani le possibilità le offriamo e con loro andiamo in scena e forse questo è già essere cittadini attivi ed è di sicuro un passo verso la realizzazione della propria felicità o un mantenimento della stessa.
Gigi Cotichella